Antonio crebbe rapidamente, sorprendendo i genitori con una vivacità insolita e una passione ossessiva per tutto ciò che rotolava. Già a due anni rincorreva i sassi in giardino, spingendoli con il suo piedino minuscolo con una coordinazione quasi innaturale. A quattro anni aveva letteralmente consumato un pallone da calcio, palleggiando tra i tavoli di casa, tra le gambe dei genitori stupiti, con una grazia innata.
"Sembra nato con una palla incollata al piede!" esclamava spesso sua madre, Isabelle, guardandolo giocare nel piccolo campo dietro casa. Suo padre, Jean-Pierre, si limitava ad annuire, un sorriso che tradiva il suo orgoglio paterno. Era un uomo di poche parole, ma capiva il linguaggio silenzioso della terra, il potenziale insito nelle cose. Lo vedeva nei suoi raccolti e lo vedeva in suo figlio.
Ma Antonio non era come gli altri bambini. Aveva sogni strani, visioni frammentate di stadi affollati, di maglie azzurre e bianche, di un giubilo incontenibile dopo un gol. Sogni che non capiva, ma che lo riempivano di una profonda nostalgia, di un desiderio incolmabile per qualcosa che sentiva di aver perso, ma che, allo stesso tempo, sentiva di dover ritrovare.
Spesso si svegliava nel cuore della notte, madido di sudore, borbottando nomi che non riconosceva: "Napoli... Azteca... Inghilterra..." Isabelle lo calmava, dicendogli che erano solo brutti sogni, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che stesse succedendo qualcosa di insolito a suo figlio.